Bodies are all the same, the healthiest
equal to the most martyred: different
are the demands, but the same
is their entrance into being.
(C. Viviani, from Il silenzio dell’universo, The Silence of the Universe)


I am Body, I am the pivot on which the work of David Reimondo turns. I am the figure of his inquiry, the prime and original element of each of his creations.
At each step in his project, it is to me that he turns. And it cannot be any other way. If, to him, every exhibition is exclusively and powerfully part of a path, I am the incomparable reference: the unique and sole power of articulation of his statement.
He wanted to move around Man, this mad one, take apart the anthropological characteristics (soul, physical/biological parts, body, thoughts…) in significant and meaningful individual episodes. But he cannot stop turning his gaze to me.
I, the first, second, every, and last part of each human act you think you play. I, incarnation of a life that only apparently your conscience believes its own. I am the centre of your perspectives, the indispensable condition of your feelings. Unique and unrepeatable in every individual in which you hope to catch me.
He had to submit to my authority: without a body, there is no Man, and only I could represent the root of his steps. Man begins where Perception begins, only to be revealed by and for an inhabited body. I am the one who puts your very existence in this world at risk. I am the only live view you can have of the world. I am the Living Body (Leib), lived and tied to subjectivity. Nothing to do with the body, mere physical material (Korper), condemned to inertia and the silence of the object. In my gestures, and only in my gestures, is it possible to catch at least a glimpse of that which is restless, hiding in the conscience of each one of you. Do you believe, perhaps, in the superiority of something like a spirit? I am no indifferent packaging for the spirit, I am the element in which existence, in its detailed complexity, is symbolised and brought into the present. I am the vehicle of every spiritual meaning you may believe you think.
Thus, I was there in the background when David Reimondo explored the soul, and that was BodySoul. I allowed him to penetrate the physical/biological meanders of organic parts, and BodyCell was born.
But today, I am the one who is on stage.

I am Bread, I am the stuff that the work of David Reimondo is made of. I am the only figure to whom could be delegated the arduous task of presenting – when pure and simple representation was certainly not at risk – every Man’s giving of himself in flesh. He came looking to me for a possible way to share the meaning of his words.
If man does not live on bread alone, as said in the old Biblical adage, he is, however, made of an element like bread. Able to be manipulated and to decay, the food of physical and mental life above all others. I am invested with sacred symbols which, if they don’t seem to interest even the artist as a primary reference, cannot suspend their presence in the collective memory. Western world, permeated with Christianity, you know the meaning of broken bread.
It is I whom David Reimondo brands with fire, to give life to his burned iconography of vital essences. His figures live upon me, his symbolisms die along me. He burdens a loaf of bread with the thousand promises of the shape of a foetus. He unfurls a planisphere on slices of toast, an inter-body space of lived shapes. It is I whom he lets fall from the sky, disconnected rhythm of hidden events. I scatter the first, second, every, and last day, like crumbs. Out of control, if not for their effects. Meat, Body and their possible extensions – computer keyboard or even piano keyboard – this is my role.
I celebrate the life and the death of that Body which I incarnate: buried, abandoned to the sea, burned on a pyre or left to decompose in the air, I speak to you of the final goodbye from video screens. If there is a power in choosing a material, it is the power to layer each meaning.
I save myself from inevitable deterioration in the shining resin, thus remaining suspended at last. It is forgetful time that I bear, the redeeming power of chemistry which is the redeeming power of the work of art. And if it must be a body, may it also be lived and thus condemned to death; but may it also be a body that leaves a trace, an ever-open path that can always be taken once more.
I am Bread. But once you say my name, I am no longer.



Bodybread
Testo di Cecilia Antolini

I corpi sono tutti uguali, il più sano
pari al più martoriato: differenti
soltanto le pretese, mentre la stessa
è l’entrata nell’essere.
(C. Viviani, da Il silenzio dell’universo)


Sono Body, sono il cardine su cui ruota il lavoro di David Reimondo. Sono la figura della sua ricerca, l’elemento primo e originario di ogni sua creazione.
È a me che lui guarda ad ogni tappa del suo progetto. E non può essere altrimenti. Se ogni mostra è per lui, esclusivamente e potentemente, parte di un percorso, sono io l’incomparabile riferimento: unico e solo potere di articolazione del suo dire.
Voleva muoversi attorno all’Uomo, il folle, scomporre le caratteristiche antropologiche (anima, componenti fisico-biologiche, corpo, pensieri…) in significanti e significativi singoli episodi. A me, però, non può cessare di rivolgere lo sguardo.
Io, la prima, seconda, ennesima e ultima parte di ogni atto umano crediate di giocare. Io, incarnazione di un vivere che solo apparentemente la vostra coscienza ritiene proprio. Sono io il centro delle vostre prospettive, condizione imprescindibile delle vostre sensazioni. Unico e irripetibile in ogni individuo vogliate sorprendermi.
Ha dovuto cedere alla mia autorità: senza corpo non è Uomo, io e solo io potevo rappresentare la radice dei suoi passi. Inizia Uomo dove inizia Percezione, dischiusa solo da e per un corpo abitato. Sono io che (per)metto in gioco il vostro stesso abitare questo mondo. Sono la sola presa diretta potete avere verso il mondo. Sono io il Corpo vivente (Leib), vissuto e legato a una soggettività. Niente a che vedere col corpo, mero materiale fisico (Korper), condannato all’inerzia e al silenzio dell’oggetto.
Nei miei gesti, e solo lì, è dato cogliere almeno un barlume di ciò che si agita nascosto nella coscienza di ognuno. Credete forse alla superiorità di qualcosa come spirito? Non sono io un involucro indifferente per lo spirito, sono l’elemento in cui l’esistenza, nella sua articolata complessità, si simbolizza e si attua. Io veicolo ogni significato spirituale crediate di pensare.
Così, c’ero io sullo sfondo quando David Reimondo ha esplorato l’anima, ed è stato BodySoul. Gli ho concesso di addentrarsi nei meandri fisico-biologici di componenti organiche, è nato BodyCell.
Ma oggi vado in scena io.

Sono Bread, sono la materia di cui è fatto il lavoro di David Reimondo. Sono l’unica figura cui poteva demandare l’arduo compito di presentare –quando non era certo in gioco la rappresentazione pura e semplice– il darsi in carne di ogni Uomo. Da me è venuto a cercare una possibile condivisione del senso del suo dire.
Se non di solo pane vivrà l’uomo, come per antico adagio biblico, è però di elemento come il pane che egli è fatto. Manipolabile e deperibile, alimento per eccellenza di vita fisica e mentale. Sono investito di simboli sacri che, se anche all’artista non sembrano interessare come primo riferimento, non possono sospendere il loro essere presenti in memoria collettiva. Occidente pervaso di cristianesimo, conosci il senso del pane spezzato.
È me che David Reimondo marchia a fuoco, per dar vita alla sua iconografia combusta di essenze vitali. Su di me vivono le sue figure, lungo me muoiono le sue simbologie. Carica una forma di pane con le mille promesse dei contorni di un feto. Dispiega un planisfero sulle fette di toast, spazio intercorporeo di contorni vissuti. È me che lascia cadere dall’alto, ritmo sconnesso di eventi nascosti. Spargo come briciole il primo, secondo, ennesimo e ultimo giorno. Fuori controllo, se non per i loro effetti. Carne, Corpo e loro possibili estensioni -tastiera di computer o anche pianoforte- è il mio ruolo
Io celebro la vita e la morte di quel Corpo che incarno: sotterrato, abbandonato al mare, immolato su una pira o lasciato decomporre all’aria, vi parlo dell’estremo saluto dagli schermi dei video.
Se c’è potere nello scegliere un materiale, è il potere di stratificare ogni senso.
Dall’inevitabile deterioramento mi salvo nel lucido della resina, restando così infine sospeso. È tempo immemore quello che mi porto addosso, potere salvifico della chimica che è potere salvifico dell’opera d’arte. E se corpo dev’essere, sia pur vissuto e in quanto tale condannato a morte; sia però anche corpo che lascia una traccia, solco sempre aperto e di nuovo percorribile.
Sono Pane. Ma se dici il mio nome non ci sono più.