ANDREA FRANCOLINO Dixart



Non si inizia mai un discorso con una domanda, ma in questo caso l’eccezione è d’obbligo: ma questa è o la considerate arte? La peggiore delle domande, la più retorica e la più convulsamente biascicata da qualunque spettatore medio che, un po’ per ritrosa pigrizia, un po’ per inalienabile pregiudizio, resta sempre un passo indietro nel valutare meritoriamente – e coscienziosamente – l’arte e, in particolar modo, quella contemporanea.
Afflitti e perseguitati da ogni genere di provocazione – ragionando sempre dal punto di vista dello spettatore medio – abbiamo fatto il callo ad ogni apparente stramberia, abbiamo concesso spazi di libertà totali e abbiamo acconsentito tacitamente a che tutto fosse possibile e legittimato o legittimabile. Sdoganiamo qualsiasi prodotto. Anche nei circoli ristretti, di intenditori e addetti ai lavori, che a volte tenacemente difendono il loro elitarismo cognitivo – più di tono che di sostanza – si è portati ad accogliere con benevolenza, ripartendosele equamente per ragioni di gusto, qualsivoglia ricerca. Tutto va bene, tutto è arte. L’accettiamo perché non ne abbiamo una convinta comprensione, le subiamo perché siamo pigri nel sentire e nel considerare la voce della cultura. Ma è giusto dar seguito incondizionato a tutto ciò che ci viene propinato, soprattutto a quello che si configura addirittura come un ricorso?
La storia si sa è ciclica ma nell’arte, tendenzialmente, si cerca il valore di una progressione del linguaggio, un suo avanzamento, teso ad uno stretto raffronto con la realtà del suo tempo e non ad un cieco afflosciarsi su percorsi già praticati. Andrea Francolino, invece, pare insistere proprio su una tipologia di ricercata votata alla citazione: il suo richiamo – distrattamente consapevole o innocentemente volontario – si volge ai gloriosi anni del boom economico, all’inizio dell’era consumistica, al trionfo dell’arte Pop.
Anche lui, come quegli arcinoti maestri di cui sarebbe superflua la menzione, va a caccia di prodotti qualsiasi ma diffusamente impressi nella nostra collettiva memoria di consumatori, illusoriamente edotti e commercialmente preparati. Attinge con oculatezza dagli scaffali del supermercato, si appella a consolidate icone del consumo attuale, agli oggetti del nostro acquistare stordito.
I prodotti d’uso, conosciuti e adoperati nella quotidianità, ma anche affermati nel nostro ricordo attraverso gli spot che ce li hanno fatti conoscere, in Francolino rendono fondamentale l’atto di recuperare la memoria estesa del loro successo: lo slogan, la battuta, il flash-back, l’oggetto, la confezione, il prodotto in sé e, non certo da ultimo, il testimonial. Importante diventa, nel suo gioco dia-logico, la figura mitica del personaggio di successo, reso egli stesso – è sotto gli occhi di tutti – prodotto di massa. Questi miti si corrompono, si s-mitizzano, per essere testimoni pubblicitari – lucroso modo per rinverdire le proprie casse – e così non è impensabile né assurdo vedere personaggi attuali, né improbabile è riconoscere quelli consacrati nella storia – evocati e attualizzati proprio dal giovane artista – piegarsi all’abuso della propria immagine. Svenduta per vendere.
L’attenzione di Andrea Francolino si fa desta nell’individuare l’alterazione continua e progressiva del sistema mass-pop-consumistico e nell’evidenziarne la costante modificazione. Pronta a dare risposte azzeccate e ad attualizzare e aggiornare i propri strumenti comunicativi. Oggi prevalgono il gioco di parole, la contraddizione, l’equivoco e l’ambiguità, caratteristiche tipiche del nostro tempo, e quindi azzeccate nella scelta di un linguaggio comunicativo attuale. A questo circuito non si sottrae, né ne è certamente immune, l’arte: Francolino lo sa bene e non viene meno all’urgenza di focalizzare, su questo punto preciso, l’attenzione della sua ricerca.
Nelle sue opere rende tutto evidente e reale: i prodotti sono conosciuti come i miti iconici che li propagandano. Quello che lascia subentrare è l’assuefazione ad un linguaggio, comunicativo e commerciale, cui siamo quotidianamente vittime. Siamo bombardati da spot radiofonici e televisivi, da manifesti per le strade e inserzioni sulla carta stampata. Siamo narcotizzati dalle pubblicità, e, abdicato il buon senso, abbiamo ceduto ad una visione onomatopeica del vivere. Tutto deve sembrare rincuorante e luccicante, come i lustrini e i motivetti sempre attuali degli spot. Il linguaggio deve essere fresco, il marchio si deve rinnovare, il mezzo comunicativo deve precedere quasi il tempo odierno. L’estetica è quella in continua e inarrestabile evoluzione, l’apparire è quello da centro commerciale che insegue con pedissequa costanza la novità.
Avviene allora che certa efficace serialità rinnovabile di alcune campagne pubblicitarie insceni la spettacolarizzazione delle merci offerte, con un gioco comunicativo che rende il fruitore avvezzo e dipendente dalla campagna stessa, non meno che dal suo effettivo oggetto di consumo. Francolino cerca miratamente questi prodotti e li traduce in opere che esasperano questo tipo di comunicazione e di attesa. Il personaggio e il prodotto cui si associa si applicano indelebilmente al codice comunicativo attualizzato nell’opera d’arte che si cala pienamente in questo contesto.
Opera dopo opera lo spettatore, accede e apprende tale codice, si erudisce in funzione del prodotto che incontra: così, come davanti allo scaffale di un supermercato gli è nota la sequenza dei prodotti assiepati sulle mensole o azzarda ipotesi sulle prossime campagne pubblicitarie, si ingegnerà ad anticipare il prossimo protagonista dell’opera di Francolino. Prodotto o personaggio poco importa a quale sequenza darà seguito, ciò che conta è che a questo punto è diventato vittima di un gioco perverso – guarda caso base dei meccanismi subliminali del linguaggio dei pubblicitari – in cui il giovane artista, con divertimento compiaciuto, fa cadere le sue vittime. Lo spettatore diventa un consumatore fedele e si immagina, anticipa, precorre l’idea stessa dell’artista: si impegna nel trovare il titolo, nell’associare personaggi alle varie categorie di merci da supermarket. Quasi si illude di essere più bravo dell’artista stesso, tanto da sentire il bisogno di suggerirgli le sue anticipazioni, le sue trovate, le sue scoperte. Inutile fingere distacco o innocenza, si può solo fare ammenda e ammettere di esserci caduti tutti. In questo Andrea Francolino è davvero un bravo istrione: ci bombarda continuamente di opere-spot che rispondono alle nostre attese. Incredibilmente pare non curarsi più nemmeno della sua tecnica – raffinatissima eredità delle opere precedenti – che occulta dietro l’emergente priorità di porre in evidenza il conflitto pop e mass comunicativo.
Ma quella semplicità trash da locandina che affolla le cassette della pubblicità condominiale, quel rumore cicaleggiante di prodotti in offerta che spingono intere famiglie a trascorrere alienate il proprio tempo libero in assiepati centri commerciali in spasmodica gara all’acquisto inutile e superfluo, permettono la contrazione del senso fortemente ironico delle sue opere. Ci riconosciamo allora succubi di questo sistema? Dopo aver assaporato con gusto i suoi lavori, averli cercati, ipotizzati e pensati nell’immaginazione ci si sente adesso presi in giro? Bene allora l’obiettivo di Andrea Francolino è raggiunto, è stato abile nello stordire le sue vittime con questa ironia: ci siamo fatti catturare dal suo lavoro e ne abbiamo subito la visione. Ancora una volta prigionieri di un sistema cui crediamo illusoriamente di essere immuni.
Forse è il momento di riflettere, con più concentrazione sulla sua provocazione, ironica e seriosa, comica e tragica. Francolino si è accordo del significato importante di quello che si può configurare come post-pop: un tempo era il prodotto ad offrirsi al consumo, mentre oggi è il prodotto stesso che risponde e plasma l’attesa – in realtà una passiva richiesta – del consumatore.
Chi allora determina cosa? L’opera-merce, l’artista-pubblicitario, lo spettatore-consumatore?
È un lavoro sull’immagine e su un sistema comunicativo divenuto straripante desiderio di promuovere un’estetica basata sull’effimero, su ciò che, di fatto, rimane aleatorio e per questo estremamente corruttibile, ma anche sostituibile e rinnovabile. Non c’è tempo di percepire interamente il vizio del sistema, perché c’è già, a distogliere la nostra attenzione, una nuova novità pronta per essere sdoganata. Con un linguaggio commerciale e mercantile, con l’ironia consumata nelle figure e nei personaggi, le storie a spot, da lui narrate col sorriso, anticipano forse la storia naturale degli accadimenti: decretano in un certo senso – o comunque la profilano – la fine del pop consumismo e lasciano intuire una sconosciuta, al momento, visione più etica del vivere e del relazionarsi.
Quasi avesse cercato tra montagne di spazzatura, avesse scavato fosse in siti di conferimento dei rifiuti, ritrova quegli articoli sempre, prima o poi, condannati all’abbandono: i propri prodotti sono logori, consumati, le figure sono sporche, inspessite da una patina scura e bituminosa. I suoi sono rinvenimenti, oggetti che arrivano come reperti di qualcosa che ha vissuto e ha ormai trascorso, consumandola, la propria storia.
L’opera si prefigura come un ritrovamento di archeologia contemporanea, sedimentato dall’incuria di un tempo ricettacolo dell’oblio. La discarica a perdere di ogni istante e di ogni memoria. Restano solo tracce usurate nei suoi lavori, da tenere sotto teca, da conservare e tutelare, frammenti di un tempo che ha raccontato la storia di un sistema ormai lontano.
L’atto di riguardo di Andrea Francolino è nel bloccare gli oggetti dietro ad un velo di resina, o a una patinatura protettiva, che arresta tutto in una bellezza ora s-composta e sorda. Sono opere destinate a preservare quel tempo che è stato effimero e fugace per gli oggetti in un uno decisamente più lungo. Il momento della consapevolezza. Molto più lungo del tempo necessario a leggere le poche parole ad effetto su un manifesto. Molto più lungo dei canonici trenta secondi di uno spot pubblicitario. Un tempo ritrovato e prolungato, pieno di riflessioni, possibile solo nella contemplazione delle opere.
Alla luce di tutto questo torno alla domanda iniziale: allora, questa è o non è arte?

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Andrea Francolino
Testo di Stefano Bianchi

Lo vedi, mentre scartavetra i miti. E ti sembra trattenere il respiro nell’attesa che un altro mito si smitizzi sotto le sue dita. Anziché dipingere olio su tela, Andrea Francolino sottrae. Minuziosamente. Per abrasioni. Cartavetrata, catrame, sudore, adrenalina e via, a sottrarre mito dai miti griffandogli addosso marchi pubblicitari, slogan, doppisensi, giochi di parole. Da mito a (s)mito: perché non se ne può più di sepolcri imbiancati, idealizzazioni, musealizzazioni. Fra uno scontrino di cassa e un carrello della spesa, ecco che il mito si toglie di dosso la polvere della Storia per filare dritto nel contemporaneo da supermarket. Esorcizzando, in un frenetico e folle Carosello, la sua stessa morte. Facendosi testimonial pubblicitario di una nuova nascita.
Con gusto schiettamente post-Pop, Francolino ha cominciato a smitizzare in punta di dita, fra un pallonaro DalÍ Kakà e un James Dean che calzava Nike. Poi, la sua abrasiva ironia si è fatta più caustica, energica, coraggiosa. E dietro all’immagine seppiata d’ogni mito, è esploso il marchio pubblicitario di un’appartenenza che è sì logica, ma sempre sul filo del paradosso. Logo colorato. Gigante. Un po’ décollage. Cosicchè, ogni mito popular s’è trasformato in mito dell’advertising che fa rima con se stesso. Inevitabile, quindi, che Andrea abbia tirato in ballo Mao Tze Tung, icona della Pop Art, camuffandolo in Miao e ridicolizzandolo in Mickey Mao, fra cibi gatteschi e fumetti disneyani. E abbia reso ancora più kitsch (fra un Lidl Castro ingordo di consumismo capitalista, uno Stalin & Oil che sembra annichilire lo slogan “a da venì, Baffone” e un mussoliniano Dove c’è Balilla c’è casa, dittatore al sugo) quell’iconografia del totalitarismo che marciava petto in fuori a colpi di Propaganda.
Sarcasmo. Gocce d’arsenico sapientemente dosate. Luis Bassat, stratega pubblicitario, ha detto che “un chilo di pubblicità può contenere 999 grammi di razionalità, ma brillerà e si distinguerà per il suo grammo di follia”. E nei quadri di Andrea Francolino, di follia ce n’è a chili: scherzosa e un po’ perversa. Ma siccome il mito non ammette sconti né buoni-sconto, tanto vale (tra)vestirlo da rapper, casalinga disperata, uomo qualunque. Facce famose infilzate su corpi sconosciuti. E poi denudarne tic, difetti, manìe, fobìe: Michael Jackson che “più bianco non si può”, insegna. E Liz Taylor, sua inseparabile amica di lifting e di sventure? Bella, bellissima. Nel fior fiore degli anni hollywoodiani. Ma osservatela meglio: sgranocchiando un cracker Ritz, si fa sorprendere in felpa infeltrita e annoiate pantofole. Woody Allen, invece, viene santificato in Aulin per marchiare la propria ipocondrìa che è un po’ anche la nostra. E se lo guardiamo, mentre sovrappensiero si versa il farmaco in un bicchiere, ci viene in mente una delle sue frasi più celebri: “La psicanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani”.
La Mitologia Classica, scartavetrata, si traduce/tradisce in (S)mitologia Contemporanea. Ma il mito, dopo essersi identificato a pelle col prodotto fino a farsi merce, deve concludere in modo logico la sua “filiera” consumistica. Rimpicciolito, rattrappito, ricompare sul packaging. Dalla tela alla confezione: mito scartavetrato e “cristallizzato” nella resina, a imperitura memoria. Come Moana Pozzi, venerata Marilyn del porno tricolore, accostata senza troppi giri di parole alle Farfalline. Qui, l’azione Pop si fa ancora più evidente. Impossibile non pensare a Andy Warhol. Ma se per il mito di Pittsburgh una bottiglia di Coca-Cola è una bottiglia di Coca-Cola punto e basta, la Campbell’s Soup un barattolo da riprodurre tale e quale sulla tela e la confezione di pagliette Brillo un capolavoro grafico da ingigantire e “serializzare” in scatole di legno, gli “impacchettamenti” di Francolino fanno derapare il consumismo nel consumato e il testimonial nel bruciato, corroso, annerito, pressochè distrutto. A un passo dall’immondizia. Sublimazione corrotta del ready-made caro a Marcel Duchamp. Cosicchè, file di Friskies “svendono” Miao Tse Tung in offerta speciale; e Mickey Mao, stavolta, è il “mostro” da sbattere sulla prima pagina di un Topolino in versione “vintage” fra Qui Quo Qua, Pippo e Paperino. Il mito ridotto a caricatura. Sintonizzato su quella Sindrome Ossessiva da Brand (conseguenza dell’uso sempre più spregiudicato dei marchi commerciali) che l’esperto di economia Lucas Conley ha di recente individuato come ultima malattia del capitalismo avanzato.
C’è tenerezza e sarcasmo, sorriso e sberleffo in quel desiderio vorace di regalare a ogni mito il packaging che si merita. Io Pago, da frase “cult” di Totò, si trasforma ad esempio in un persuasivo slogan pubblicitario. D’altronde, chi non comprerebbe un succo di frutta da un testimone così? E il mito (ma solo in questo caso) assume i connotati dell’intoccabilità assoluta. Ma poi daccapo, velenosamente, viene rimesso in gioco: quando la scatola di detersivo dell’Omino bianco esibisce l’immagine di Martin Luther King sottintendendo lo slogan Bianco bianco, colore colore, e quando Hitler e Himmler, vestiti da graffitari, hanno tutta l’aria di spruzzare con le loro bombolette “tags” sui muri. Ma quell’insetticida spremuto fino all’ultima esalazione descrive l’orrore del regime nazista, accostando con tragica ironia Raid e Terzo Reich per poi clonarli nello slogan Il Terzo Raid: li ammazza stecchiti.
Andrea Francolino, graffiante fustigatore di miti, riserva le stoccate finali a Jackson Pollock e a Francis Bacon. Se l’action painter del Wyoming, immortalato su fustino e fustone Dixan, viene “retrocesso” a Campione contro le macchie sottraendogli di fatto il “copyright” del dripping, allo psycho-pittore dublinese tocca accollarsi McBacon, cognome da “fast food” con chiara allusione al colesterolico hamburger Crispy McBacon. E qui, l’artista compie il miracolo: triplicando il packaging in un ipoglicemico Mc Menu squassato, slabbrato, consunto. Ripensando, chissà, ai tableaux-piéges di Daniel Spoerri. Ma in fondo, i suoi, sono tutti “quadri-trappola”. E i miti, logo o non logo, qualche volta finiscono in pattumiera.