CRISTIANO PETRUCCI Emo-tional



In principio furono gli sms, e con il loro avvento iniziò il declino della comunicazione verbale. Letteralmente sms significa short message service, un servizio, appunto, che permette di mandare brevi messaggi di testo attraverso un normale telefono cellulare. A differenza dei cellulari di nuova generazione in grado di connettersi ad internet e di consentire l’invio di mail come se si stesse davanti al proprio computer di casa, i telefonini prodotti qualche anno fa e tuttora in uso posseggono solo la soluzione del messaggio breve che permette di comporre una serie limitata di caratteri, quindi comunicazioni telegrafiche di poche parole.
Come ogni cosa proposta dalle innovazioni tecnologiche, se utilizzata bene dà dei grandi vantaggi, se snaturata nelle sue funzioni può invece creare seri problemi di comprensione, basta saperne riconoscere i limiti e sfruttarne al meglio le reali capacità.
Tale invenzione, quindi, ha permesso di facilitare la velocità comunicativa, di rendere reperibili le persone in tempo reale ed in qualsiasi posto esse si trovino ma, come tutte le medaglie che si rispettino, l’altra faccia presenta lati oscuri che dimostrano un peggioramento dei rapporti umani, un deterioramento del linguaggio e della trasmissione dei suoi contenuti.
Esistono persone che pretendono di affidare a questo medium messaggi dai contenuti importanti, densi di significati, come fossero forieri di sentimenti ed emozioni, invece non è così, l’utilizzo migliore che se ne può fare è quello delle cosiddette “comunicazioni di servizio”, veloci annunci su eventi in atto o futuri.
È l’informazione che conta, l’espressione di un’azione, il mettere al corrente una persona su un movimento verso una direzione piuttosto che verso un’altra. L’sms è una notizia pura e semplice, senza alcuna pretesa di spessore contenutistico.
Da questo fattore è derivata la pesante degradazione del linguaggio avvenuta negli ultimi 10/15 anni, con abbreviazioni, sostituzioni di lettere, invenzioni di nuove ed improbabili parole dal suono familiare ma dalla scrittura alquanto discutibile e fantasiosa, sino alla sintesi totale, racchiusa in un’unica immagine, l’emoticon. Questa è la vera novità della comunicazione contemporanea, le cosiddette emoticon (abbreviazione di Emotional Icon) sono le faccine gialle che permettono di condensare un sentimento (e quindi non un discorso o una complessa discussione) e di manifestarlo senza l’utilizzo di parole ma con la riproduzione stilizzata di un’espressione del volto, possibile da tradurre anche con simboli ortografici.
Il vantaggio oggettivo offerto dall’utilizzo di questi simboli è il superamento delle barriere linguistiche, una sorta di esperanto facilmente utilizzabile per esprimere un’emozione a chiunque, senza dover necessariamente conoscere la specifica lingua del nostro interlocutore.
Può capitare, infatti, di leggere nella home del più diffuso social network Facebook gli status degli amici collegati, di qualsiasi nazionalità essi siano. Solitamente è una frase fulminea, quasi un motto, un aforisma che descrive il pensiero o lo stato d’animo di quel preciso momento, o una considerazione più complessa circa determinati argomenti, scritta nella propria lingua originale (per esempio filippino, finlandese o vietnamita) o in inglese, per essere più accessibile al maggior numero di utenti. Non può ovviamente essere compresa se non si conosce il significato e la grammatica della lingua stessa, ma se alla fine di questa serie di parole incomprensibili l’autore della frase mette una emoticon possiamo almeno capirne il carattere e l’umore, l’atmosfera che caratterizza l’intera riflessione. Il suo uso, se posta alla fine di una frase compiuta ed in base a chi la legge, può avere almeno due funzioni: in un caso almeno indicare l’umore, in un secondo caso rafforzare ed amplificare quello che le parole non riescono ad esprimere. A volte arriva persino a sostituire completamente la frase, divenendo l’unico veicolo comunicativo di un pensiero. La raffigurazione del volto, semplificato con pochi tratti e ridotto a limitate variabili espressive, diventa quindi uno strumento di comunicazione efficacissimo.
Cristiano Petrucci sta sviluppando un interessante e complesso lavoro su questo fenomeno comunicativo contemporaneo, con esiti a volte divertenti, altre volte più intimistici, arrivando a toccare perfino il comico e il grottesco.
L’artista ha ideato un sistema apparentemente semplice per illustrare le migliaia di possibilità espressive che il volto umano è in grado di manifestare soltanto con la contrazione dei muscoli facciali e la leggera deformazione dei tratti somatici, i materiali utilizzati, infatti, sono solo delle comuni palline da ping pong (interessante la scelta di uno sport dalla grande diffusione sociale) incastonate nelle tipiche confezioni delle uova, composizioni che vengono allestite in raffinate e minimali teche in plexiglass. È l’intervento pittorico che rende queste opere rappresentazioni caratterizzate e caratterizzanti gli umori, le sensazioni, i sentimenti, i moti dell’animo, creando in questo modo una sorta di “inventario emozionale” abbastanza completo ed esaustivo.
A differenza delle emoticon più diffuse ed utilizzate nelle chat e negli sms, il cui uso serve, la maggior parte delle volte, come detto, a sintetizzare, semplificare o chiudere un discorso, affidando ad esse il compito di esprimere rapidamente un’emozione che diviene in questo modo diretta e ripulita dalla complessità espressiva delle parole in sequenza, quelle ideate da Cristiano Petrucci sono un’estensione fantasiosa di quelle codificate ed accettate dalla generazione web 2.0. Esse divengono pure rappresentazioni visive indipendenti da qualsiasi discorso in atto, non sono rafforzative né rappresentative di un ragionamento linguistico, diventano esse stesse puro linguaggio e da se stesse traggono la loro incisività e la loro eloquenza.
L’elaborazione accurata di ogni singola espressione abbinata a questa serie di faccette ne fa delle vere e proprie caricature, delle buffe riproduzioni dal sapore quasi esclusivamente di carattere umoristico e satirico se non rispecchiassero anche l’aspetto più realistico delle smorfie, il quale documenta un’attenta osservazione da parte di Petrucci di tutto ciò che caratterizza i rapporti umani e di ciò che ne consegue: i legami, le problematiche, le tensioni, le storture, le gioie, le bizzarrie, i vizi, le fantasie, e le tipologie esteriori (quindi le apparenze) che la civiltà odierna impone quali status emotivi da adottare per entrare e farsi accettare in un determinato gruppo sociale. L’identificazione in qualcosa o qualcuno diventa determinante e di rilevante importanza rispetto a ciò che si è realmente, impone dei comportamenti alterati e, di conseguenza, un impoverimento della propria identità ed unicità. Replicando le faccette, tutte uguali ma anche diverse ed uniche, simili tra di loro ma eseguite una ad una con un procedimento manuale molto accurato, Petrucci evidenzia una sorta di omologazione sia dell’aspetto esteriore sia della comunicazione, quale eredità di un’evoluzione umana che tende sempre di più a creare dei cloni, degli spettatori non partecipanti ed imitatori della vita, insicuri di qualsiasi cosa e con nessuna opinione particolare da esprimere se non allineata a quella della maggior parte della gente.
La scelta di utilizzare i contenitori per le uova (adatti quindi a preservare l’integrità di oggetti dall’estrema delicatezza e vulnerabilità) quali supporti su cui incassare le singole faccine dipinte, può essere una precisa dichiarazione da parte di Petrucci circa la fragilità delle emozioni e della precarietà delle loro manifestazioni esteriori, veicolate da questi volti che diventano delle maschere a nostra disposizione, in un vasto campionario dal quale attingere, predisposte per essere scelte, indossate e recitate come parte integrante di un’esistenza che sfugge al nostro controllo perché plasmata su modelli predefiniti, ideate per rimediare alle mancanze di una completa padronanza di sé stessi, perché non più determinata dalla propria volontà ma condivisa seguendo delle imposizioni che oltre ad unire rischiano di creare delle profonde e sofferte divisioni.
Paradossalmente, se da una parte la diffusione telematica di sentimenti, riflessioni, gusti personali e opinioni, può creare un appiattimento delle personalità e favorire la formazione di gruppi, fazioni, associazioni, che tendono ad annullarle, dall’altra, per reazione, questa condivisione rischia di isolare i soggetti, soprattutto quelli non interessati a queste estese dinamiche sociali. I volti di Petrucci diventano quindi un travestimento facciale da indossare per coprire disagi più cupi ed inquietanti perché drammaticamente vissuti come deformazione di una realtà che si fatica ad accettare come unica soluzione esistenziale.
Un altro importante aspetto preso in considerazione da Petrucci è quello della comunicazione per immagini in quanto primordiale mezzo di comunicazione, primigenio sistema linguistico antecedente la parola scritta. Quello delle emoticon sembrerebbe quindi un ritorno alle origini della rappresentazione iconica dei pensieri ricollegandosi a quella chiarezza visiva necessaria per la diretta comprensione dei contenuti del messaggio.
Lo spazio d’azione è minimo ma utilizzato al massimo delle sue potenzialità, la liscia superficie della singola pallina da ping pong (e non da tennis, o da golf, caratterizzate da textures rugose e già di per sé ben connotate) viene dipinta accuratamente, deformata o assemblata con altri oggetti quali spille, bottoni, stuzzicadenti, sino ad ottenere delle fisionomie che riescono a ben rappresentare i “tipi umani” che identificano la nostra epoca, con tutte le problematiche che le classificazioni, distinzioni e, soprattutto, esclusioni, possono comportare. Petrucci si sbizzarrisce ritraendo e plasmando volti che riconosciamo perché appartenenti alla nostra realtà di tutti i giorni, li incontriamo per strada, in tv, in rete, e ci narrano storie ed emozioni che non hanno più bisogno di parole né di giudizio, ma solo di un’umana comprensione.
L’artista punta proprio sulla forza comunicativa delle emoticon, sulla loro chiarezza rappresentativa e nella universale codifica contenutistica dei segnali che veicolano, graficamente mimetiche della realtà mostrata, ma stilizzate nei tratti ed esplicite nei contenuti. Egli però ne stravolge la connotazione “genetica” e le libera dalla loro condizione di mero veicolo emotivo, ne inventa di nuove, le personalizza, attribuendo ad esse caratteristiche somatiche che superano le barriere dell’apparenza, effettuando in questo modo quasi un vero e proprio studio di fisiognomica, associando ai volti raffigurati caratteri e sentimenti non più “standardizzati”, piuttosto ri-umanizzati e vicini alla realtà della vita quotidiana.