DAVIDE BRAMANTE New York, New Delhi, New Old
IL VEDERE DI DAVIDE BRAMANTE
Di Giacinto Di Pietrantonio
A prima vista l’opera di Davide Bramante, (1970, Siracusa), potrebbe sembrare quella di un fotografo, invece è quella di un artista che ha scelto la fotografia per stare dalla parte dell’arte. La prima domanda che ci poniamo è il perché di tale scelta.
La risposta più semplice e generalista potrebbe essere che da tempo l’arte e gli artisti impiegano questo mezzo moderno e che quindi è una domanda inutile. Io non lo credo, perché la fotografia, come ci ha insegnato Walter Benjamin (1892, Berlino – 1940, Portbuou), non è solo una tecnica ma un modo d’essere che costituisce l’orizzonte della modernità, la sua ricerca di verità, la messa in discussione dell’arte e della sua unicità in quanto: “Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l’analfabeta del futuro”. Una tesi ancora oggi valida che gli artisti, direttamente o indirettamente, confutano, ivi inclusa quella della centralità filosofica della perdita dell’aura. Per questo, da tempo, gli artisti sfidano il filosofo berlinese, o almeno alcune delle sue teorie, sul terreno della riproduzione della riproducibilità e dell’artisticità, a proposito di cui, ancora Benjamin, dice che ci avviamo verso un futuro laddove: “La tecnologia non è la conoscenza profonda della natura ma la relazione fra naturale e l’uomo.” Sta di fatto che la fotografia, fin dalla nascita, ha cercato di essere arte. Presentata all’Accademia delle Scienze e delle Belle Arti di Parigi, allorché queste discipline erano in qualche modo ancora unite, il 6 o 7 gennaio del 1839, quasi fosse un dono della Befana, la discussione, già all’inizio, fu se essa appartenesse all’arte o alla scienza. È noto come all’inizio la maggior parte [di chi?] parteggiasse per la seconda, essendo la fotografia una tecnologia meccanica, un’invenzione della scienza e non una creazione dell’arte. Come sempre l’impertinente Picasso (1881, Malaga – 1973, Mougins) collocava il discorso a portata di scienza dicendo che: “Due dei mestieri più frustrati sono i dentisti e i fotografi, i dentisti perché vogliono essere medici e i fotografi perché vogliono essere pittori.”
Un disprezzo che in realtà metteva in evidenza la lotta della nuova scoperta che voleva essere ammessa nel campo dell’arte, perché a ben guardare, già le prime immagini fotografiche sono paesaggi e nature morte, non solo e non tanto perché soggetti che stavano fermi ed erano dunque facili da fotografare in un tempo in cui i tempi d’esposizione duravano ore, ma anche perché erano i nuovi soggetti dell’arte affermatisi a partire dal XVII secolo. Soggetti quarti e quinti dopo quelli di religione, storia e ritrattistica, questione sulla quale, sempre Picasso, padre dei pittori contemporanei, tendenziosamente continuava a domandarci: “Chi vede correttamente il volto umano: il fotografo, lo specchio, o il pittore?”
Infatti, la natura morta e il paesaggio erano anche i soggetti degli impressionisti e post-impressionisti, semplificando al tempo: l’en plein air di Monet (1840, Parigi -1926, Giverny) o le mele di Cézanne (1839, - 1906, Aix-en-Provence). Uno dei primi grandi fotografi amico degli artisti, Nadar (1820-1910, Parigi), 1820-1910, diceva che: “Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno neanche guardare”. Con ciò Nadar poneva l’accento non sulla facilità tecnica di premere un pulsante per scattare l’immagine di quanto sta davanti all’obiettivo, ma sul fatto che questa si realizza a seconda di come vediamo e di cosa e come vogliamo far vedere quello che vediamo; insomma Nadar ci dice che la fotografia è una questione del vedere che è la qualità principe dell’arte di tutti i tempi. Si trattava, tra l’altro e gli altri, di contravvenire a ciò che il grande artista viaggiatore Paul Gauguin (1848, Parigi – 1903, Hiva-Oa) pensava della fotografia quando affermava che: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita… Sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile.”
Ora, la fotografia non solo ha dimostrato di esserci utile, ma anche di essere arte, recuperando quell’aura che secondo Benjamin non possedeva data la sua infinita riproducibilità. È Gerhard Richter, (1932, Dresda) pittore di tutto: nature morte, ritratti, paesaggi, … a dirci che: “La fotografia è l'immagine più perfetta. Non cambia; è assoluta, e quindi autonoma, incondizionata, priva di stile”.
Sta di fatto che oggi è accertato che l’aura, che è pure ricerca della perfezione, verità e linguaggio non è più una questione di auratica unicità, e dopo Warhol (1928, Pittsburgh – 1987, New York) chi si azzarderebbe a negarlo? Non è un caso che, a questo punto, chiediamo l’intervento di Kosuth (1945, Toledo, U.S.A.) che, agendo sul terreno della concettualità dell’impiego della fotografia, dice che: “La fotografia, come invenzione, era sia arte che scienza. La visione che ci dava sul mondo era in qualche misura accettabile perché era un prodotto della nostra visione del mondo; e lo fece come parte dello stesso processo che sembrava impartire ‘verità’: la scienza.”
Sappiamo bene che la problematica della verità, che accompagna la fotografia sin dagli esordi in quanto mezzo che riprende “fedelmente e realmente” ciò che le sta davanti, è ormai superata, tant’è che è stato appurato come molte delle icone della fotografia, tipo il Miliziano Morente, 1936 di Robert Capa, (1913, Budapest, 1954, Thai Binh) o Iwo Jima, 1945 di Joe Rosenthal, (1911, Washington – 2006. Novato) sono delle “messe in posa.” Si tratta di procedure volte ad aumentare il grado di verità che risponde a quel “saper vedere” di Nadar, o di Ansel Adams (1902, Western Addition – 1984, Monterey), il quale aggiunge che: “Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito e le persone che hai amato.” Insomma, la fotografia è una questione concettuale ed esistenziale di arte e vita.
Davide Bramante ha fatto di tutto ciò e altro la sua ragione d’arte e vita. Come Gauguin viaggia per il mondo non con colori e pennelli, ma con macchine fotografiche che gli servono a ritrarre molte immagini dei luoghi e non luoghi in cui si reca. Va in Paesi, continenti e città come le Americhe, l’India, il Giappone, l’Africa, per vivere esperienze, per affinare lo sguardo, per vedere cose e persone, per prendere immagini di cui si serve per la sua arte. Con esse disegna e dipinge, dopo aver messo da parte matite e pennelli che sapeva come dice lui stesso: “utilizzare benissimo” per appropriarsi dell’uso della fotografia.
Si tratta soprattutto di immagini di città, o parti di essa che poi compone, come vedremo più avanti. Quello della città è uno dei temi centrali del lavoro dell’arte d’oggigiorno, in quanto la città è un’entità fatta di luoghi e “non luoghi”, Marc Augé, (1935, Poitiers) di storie e non storie lunghe e brevi, Eric Hobsbawm (1917, Alessandria, Egitto - 2012, Londra), di vita e non vita e di memorie e non memorie, Benjamin. Insomma, le città come la vita o le vite sono delle sedimentazioni, dei millepiani, Gilles Deleuze- Felix Guattari (1925 – 1995, Parigi e 1930, Villenuve-les-Sablons - 1992, Cour-Cheverny), di memorie e cose, delle entità liquide, Zygmunt Bauman, (1925, Poznan – Leeds, 2017) moltitudini e molteplicità, Pessoa, e in questo caso soggetto principe dell’opera di Davide Bramante. Tornando alla questione della fotografia riferita all’arte o almeno alla tradizione dell’arte prima della fotografia, quindi alla pittura, perché questo è il centro della questione, c’è ancora da far intervenire Picasso quando afferma che: “La fotografia è arrivata al punto in cui è in grado di liberare la pittura da tutta la letteratura, dall'aneddoto e persino dall'argomento. In ogni caso, un certo aspetto del soggetto appartiene ora al dominio della fotografia. Quindi i pittori non dovrebbero trarre profitto dalla loro libertà appena acquisita e farne uso per fare altre cose?” Insomma, siccome non avete più il compito della rappresentazione fedele, cari pittori, siate riconoscenti alla fotografia che vi ha resi liberi, permettendovi di dipingere cosa e soprattutto come volete. Ma c’è da sottolineare che a questo punto i pittori, che per Picasso voleva dire gli artisti, si sono sentiti talmente liberi da dipingere non solo cosa e come vogliono, ma anche con che cosa, scegliendo anche la fotografia al posto di matite e pennelli. A tal proposito Davide Bramante afferma: “Il mio modo di fotografare è identico al mio modo di ricordare, pensare, sognare, sperare, tutto avviene per sovrapposizioni temporali e spaziali”, tramite la fotografia analogica ad esposizione multipla in fase di ripresa da quattro a nove scatti sullo stesso fotogramma. Scegliere la fotografia vuol dire scegliere la luce, anzi la lotta, combattimento, bilanciamento, la relazione tra luce e ombra. Questa è una questione certamente di quasi tutta l’arte e stranamente anche della scultura se si sta al XXXV capitolo della Historia Naturalis, in cui Plinio nel 77 d.C. ci narra della ragazza di Corinto, figlia del vasaio Butade Sicionio, che traccia il profilo dell’ombra dell’amato proiettata sul muro dalla luce della lucerna che suo padre plasmò in scultura. Noi sappiamo che le prime opere di Bramante, sul finire degli anni Ottanta, furono installazioni e sculture il cui soggetto era l’ombra e, come per la fotografia, dove c’è l’ombra c’è anche la luce che la genera. Ombra e luce sono essenze, materie mobili imprendibili e mutevoli. Per questo sembra che il passaggio successivo dell’artista in questione sia stato inevitabilmente l’impiego della fotografia. Ma di che tipo di fotografia si tratta?
Una fotografia in cui adotta, quale riferimento, la tecnica dell’acquerello. Difatti le sue immagini fotografiche sono fatte, come la pittura, di velature, dove: «…le stratificazioni e le velature che presenta ogni immagine mi riconducono alla storia della mia terra e del mio popolo, siamo un po’ Arabi, Normanni, Bizantini, Spagnoli…». Vale a dire che la sua abilità nel conseguire “ritratti di città”, sovrapponendo vari scatti fotografici, non rende conto solo della liquidità della nostra condizione sociale di “modernità liquida”, ancora Bauman, ma anche della “presa in prestito”, o del riferimento a una delle tecniche artistiche non solo più antiche ma anche più difficili proprio a causa della sua liquidità. Nell’acquerello basta un nonnulla per rovinare l’immagine che si vuole ottenere. L’immagine acquerellata è certamente un’immagine di colore, ma anche e soprattutto un’immagine di luce. In questa sta un’altra importante prossimità con la foto-grafia che vuol dire scrivere con la luce, motivo per cui il poeta e scrittore francese Alphonse de Lamartine, già nel secolo XIX, ebbe a dire che: “La fotografia è un’arte; anzi più che un’arte, è il fenomeno solare in cui l’artista collabora con il sole.” Quel culto del sole che è culto della luce e del vedere legata anche a Lucia di Siracusa, più nota come Santa Lucia, patrona della città siciliana luogo di nascita e di vita di Davide Bramante. Forse non poteva essere altrimenti per un artista nato a Siracusa, città tra le più importanti della Magna Grecia, dove fin da piccolo ha modo di osservare il duomo cittadino: un tempio dorico dedicato ad Athena nei secoli trasformato in chiesa cristiana tramite successive stratificazioni architettoniche tutt’oggi visibili, così come la città tutta greca-barocca-contemporanea. Questo ha instillato nell’artista la possibilità e necessità della stratificazione architettonica come sedimento di storie e culture, conferendo una mobilità a ciò che è più statico, e cioè a quell’architettura nucleo fondante della città. L’architettura e la città sono state per secoli segni di fondazione di civiltà, ma anche luoghi statici, cintati, murati e protetti. Certamente, a detta dei greci antichi, riferendosi alla vita della città, “la città rende liberi”, ma a costo di una architettura posta a difesa della natura. Tuttavia, c’è ancora un’altra questione, quella, ripetiamo, della collaborazione tra immagini che si sovrappongono, il che non vuol dire soltanto sovrapposizione di forme, ma di tempo che è la problematica principale intorno a cui lavora Bramante per questa mostra, in cui, tra l’altro, sono presenti immagini di: Noto, Tokyo, Marrakech, Washington, Torino, Stoccolma, New-Delhi, Milano. La caratteristica di queste foto è che le sovrapposizioni di immagini fotografiche possono essere e sono “interne” o “interne-esterne”, il che non vuol dire soltanto di luoghi interni ed esterni di una città ma, come in certe opere, sovrapposizioni di immagini di città diverse come ad esempio quella di Tokyo e New York. Tutto ciò ci fa riflettere sul Tempo, e su uno dei suoi attivatori più potenti, vale a dire la memoria, o le memorie, in quanto sappiamo che i ricordi sono anch’essi multipli, perché ricordiamo uno stesso episodio in maniera differente a distanza di tempo. In questa mostra e in queste opere la sfida è ancora più ardua, perché la memoria non si basa solo su episodi di vita vissuta. Ad esempio, parlando dei visitatori, ci sono persone che non sono mai state a Tokyo, eppure hanno un’immagine di essa molto forte e nitida. In tal modo si viene a formare non una memoria del luogo, ma dell’immagine del luogo o non luogo come altro luogo. Molta della nostra memoria spesso è costruita attraverso le immagini, come le cartoline, immagini in via d’estinzione, o le immagini televisive, di giornali e oggi dei social media. Sono immagini fisse e immagini a scorrimento sempre più veloci e dunque anche tempo e memoria si relativizzano e velocizzano, dando ragione a quanto da tempo affermato da John Szarkowski, direttore del dipartimento della fotografia del MoMa dal 1962-1991, che afferma: “Viviamo sempre più in un mondo che ora contiene più fotografie che mattoni e che esse sono sorprendentemente tutte diverse”. Così Bramante confuta e mette a fuoco la questione della differenza nella ripetizione di una vita che vale la pena di essere vissuta in un mondo costruito dalle immagini che sono ormai una nuova realtà. Tutto questo ci riporta ancora alle opere di Bramante, il quale compone queste immagini “liquide” proprio per darci conto della relazione delle differenze tra il vecchio e il nuovo e, dunque, fra le categorie del passato, presente e futuro. Infatti dice l’artista: “Le mie foto sono tecnicamente tutte errate alla stessa maniera. Se proprio si vuole discernere su ciò che è passato da ciò che è presente o futuro, potrei sarcasticamente affermare che io sono il passato con un piede nel presente, sperando di spostare il lavoro ancora per qualche tempo verso il futuro”. Un lavoro fatto di una somma di immagini, una somma di memorie, una somma di luci e di ombre, una somma di vecchio e nuovo, una somma di tempi. In questo caso vediamo la persistenza di luoghi antichi e rinati come la sua Noto ricostruita dopo un forte terremoto avvenuto nel 1693, ma rinata più bella di prima sia per architetture che per popoli, come sottolinea l’artista. Si tratta di un luogo che ha incantato e incanta molti, persino l’ultima zarina di tutte le Russie che vi aveva alcuni possedimenti. Simultaneità di immagini che sono simultaneità di pensieri e ricordi, perché, ancora Bramante: «Il mio modo di fotografare è identico al mio modo di ricordare, pensare, sognare, sperare, tutto avviene per sovrapposizioni temporali e spaziali.» Allora ecco Washington sembrare un po’ America e po’ Roma, ecco New York sembrare un po’ Tokyo e viceversa, ecco Milano sembrare tutto futuro, ecco l’India molto India e un po’ America sembrare originaria e moderna al tempo stesso. Ecco luoghi che sono loro stessi pur sembrando altri, luoghi multipli sempre abitati da una folla di persone. La moltitudine anonima, altra condizione della modernità, perché corpo che si addensa e disperde creando, come l’architettura spazio, spazio di corpi mobili anima collettiva delle città che “diventano Metropoli quando si arricchiscono di nuovi cittadini. Le nuove città ideali diventano tali non soltanto per le architetture, ma quando si mischiano gli stili di vita. Non è la grandezza che rende importante una città, ma quante più storie sono legate ad essa”. Questo ci porta a dire che, pur essendo le sue opere fatte di immagini e tempi diversi, “l’old e il new”, come dice l’artista, sono al tempo stesso l’uno e l’altro. “Opere che non si completano mai, perché offrono sempre nuovi spunti e riflessioni... Una sorta di Torre di Babele che si sviluppa in altezza, verso un cielo”.
Dunque è questo concetto del tempo stesso, o del contempo l’essenza contemporanea delle sue opere che sono compresenti, sembrando sempre allo stesso tempo antiche e nuove di una vita viaggiata e vissuta con e per l’arte.
Di Giacinto Di Pietrantonio
A prima vista l’opera di Davide Bramante, (1970, Siracusa), potrebbe sembrare quella di un fotografo, invece è quella di un artista che ha scelto la fotografia per stare dalla parte dell’arte. La prima domanda che ci poniamo è il perché di tale scelta.
La risposta più semplice e generalista potrebbe essere che da tempo l’arte e gli artisti impiegano questo mezzo moderno e che quindi è una domanda inutile. Io non lo credo, perché la fotografia, come ci ha insegnato Walter Benjamin (1892, Berlino – 1940, Portbuou), non è solo una tecnica ma un modo d’essere che costituisce l’orizzonte della modernità, la sua ricerca di verità, la messa in discussione dell’arte e della sua unicità in quanto: “Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l’analfabeta del futuro”. Una tesi ancora oggi valida che gli artisti, direttamente o indirettamente, confutano, ivi inclusa quella della centralità filosofica della perdita dell’aura. Per questo, da tempo, gli artisti sfidano il filosofo berlinese, o almeno alcune delle sue teorie, sul terreno della riproduzione della riproducibilità e dell’artisticità, a proposito di cui, ancora Benjamin, dice che ci avviamo verso un futuro laddove: “La tecnologia non è la conoscenza profonda della natura ma la relazione fra naturale e l’uomo.” Sta di fatto che la fotografia, fin dalla nascita, ha cercato di essere arte. Presentata all’Accademia delle Scienze e delle Belle Arti di Parigi, allorché queste discipline erano in qualche modo ancora unite, il 6 o 7 gennaio del 1839, quasi fosse un dono della Befana, la discussione, già all’inizio, fu se essa appartenesse all’arte o alla scienza. È noto come all’inizio la maggior parte [di chi?] parteggiasse per la seconda, essendo la fotografia una tecnologia meccanica, un’invenzione della scienza e non una creazione dell’arte. Come sempre l’impertinente Picasso (1881, Malaga – 1973, Mougins) collocava il discorso a portata di scienza dicendo che: “Due dei mestieri più frustrati sono i dentisti e i fotografi, i dentisti perché vogliono essere medici e i fotografi perché vogliono essere pittori.”
Un disprezzo che in realtà metteva in evidenza la lotta della nuova scoperta che voleva essere ammessa nel campo dell’arte, perché a ben guardare, già le prime immagini fotografiche sono paesaggi e nature morte, non solo e non tanto perché soggetti che stavano fermi ed erano dunque facili da fotografare in un tempo in cui i tempi d’esposizione duravano ore, ma anche perché erano i nuovi soggetti dell’arte affermatisi a partire dal XVII secolo. Soggetti quarti e quinti dopo quelli di religione, storia e ritrattistica, questione sulla quale, sempre Picasso, padre dei pittori contemporanei, tendenziosamente continuava a domandarci: “Chi vede correttamente il volto umano: il fotografo, lo specchio, o il pittore?”
Infatti, la natura morta e il paesaggio erano anche i soggetti degli impressionisti e post-impressionisti, semplificando al tempo: l’en plein air di Monet (1840, Parigi -1926, Giverny) o le mele di Cézanne (1839, - 1906, Aix-en-Provence). Uno dei primi grandi fotografi amico degli artisti, Nadar (1820-1910, Parigi), 1820-1910, diceva che: “Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno neanche guardare”. Con ciò Nadar poneva l’accento non sulla facilità tecnica di premere un pulsante per scattare l’immagine di quanto sta davanti all’obiettivo, ma sul fatto che questa si realizza a seconda di come vediamo e di cosa e come vogliamo far vedere quello che vediamo; insomma Nadar ci dice che la fotografia è una questione del vedere che è la qualità principe dell’arte di tutti i tempi. Si trattava, tra l’altro e gli altri, di contravvenire a ciò che il grande artista viaggiatore Paul Gauguin (1848, Parigi – 1903, Hiva-Oa) pensava della fotografia quando affermava che: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita… Sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile.”
Ora, la fotografia non solo ha dimostrato di esserci utile, ma anche di essere arte, recuperando quell’aura che secondo Benjamin non possedeva data la sua infinita riproducibilità. È Gerhard Richter, (1932, Dresda) pittore di tutto: nature morte, ritratti, paesaggi, … a dirci che: “La fotografia è l'immagine più perfetta. Non cambia; è assoluta, e quindi autonoma, incondizionata, priva di stile”.
Sta di fatto che oggi è accertato che l’aura, che è pure ricerca della perfezione, verità e linguaggio non è più una questione di auratica unicità, e dopo Warhol (1928, Pittsburgh – 1987, New York) chi si azzarderebbe a negarlo? Non è un caso che, a questo punto, chiediamo l’intervento di Kosuth (1945, Toledo, U.S.A.) che, agendo sul terreno della concettualità dell’impiego della fotografia, dice che: “La fotografia, come invenzione, era sia arte che scienza. La visione che ci dava sul mondo era in qualche misura accettabile perché era un prodotto della nostra visione del mondo; e lo fece come parte dello stesso processo che sembrava impartire ‘verità’: la scienza.”
Sappiamo bene che la problematica della verità, che accompagna la fotografia sin dagli esordi in quanto mezzo che riprende “fedelmente e realmente” ciò che le sta davanti, è ormai superata, tant’è che è stato appurato come molte delle icone della fotografia, tipo il Miliziano Morente, 1936 di Robert Capa, (1913, Budapest, 1954, Thai Binh) o Iwo Jima, 1945 di Joe Rosenthal, (1911, Washington – 2006. Novato) sono delle “messe in posa.” Si tratta di procedure volte ad aumentare il grado di verità che risponde a quel “saper vedere” di Nadar, o di Ansel Adams (1902, Western Addition – 1984, Monterey), il quale aggiunge che: “Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito e le persone che hai amato.” Insomma, la fotografia è una questione concettuale ed esistenziale di arte e vita.
Davide Bramante ha fatto di tutto ciò e altro la sua ragione d’arte e vita. Come Gauguin viaggia per il mondo non con colori e pennelli, ma con macchine fotografiche che gli servono a ritrarre molte immagini dei luoghi e non luoghi in cui si reca. Va in Paesi, continenti e città come le Americhe, l’India, il Giappone, l’Africa, per vivere esperienze, per affinare lo sguardo, per vedere cose e persone, per prendere immagini di cui si serve per la sua arte. Con esse disegna e dipinge, dopo aver messo da parte matite e pennelli che sapeva come dice lui stesso: “utilizzare benissimo” per appropriarsi dell’uso della fotografia.
Si tratta soprattutto di immagini di città, o parti di essa che poi compone, come vedremo più avanti. Quello della città è uno dei temi centrali del lavoro dell’arte d’oggigiorno, in quanto la città è un’entità fatta di luoghi e “non luoghi”, Marc Augé, (1935, Poitiers) di storie e non storie lunghe e brevi, Eric Hobsbawm (1917, Alessandria, Egitto - 2012, Londra), di vita e non vita e di memorie e non memorie, Benjamin. Insomma, le città come la vita o le vite sono delle sedimentazioni, dei millepiani, Gilles Deleuze- Felix Guattari (1925 – 1995, Parigi e 1930, Villenuve-les-Sablons - 1992, Cour-Cheverny), di memorie e cose, delle entità liquide, Zygmunt Bauman, (1925, Poznan – Leeds, 2017) moltitudini e molteplicità, Pessoa, e in questo caso soggetto principe dell’opera di Davide Bramante. Tornando alla questione della fotografia riferita all’arte o almeno alla tradizione dell’arte prima della fotografia, quindi alla pittura, perché questo è il centro della questione, c’è ancora da far intervenire Picasso quando afferma che: “La fotografia è arrivata al punto in cui è in grado di liberare la pittura da tutta la letteratura, dall'aneddoto e persino dall'argomento. In ogni caso, un certo aspetto del soggetto appartiene ora al dominio della fotografia. Quindi i pittori non dovrebbero trarre profitto dalla loro libertà appena acquisita e farne uso per fare altre cose?” Insomma, siccome non avete più il compito della rappresentazione fedele, cari pittori, siate riconoscenti alla fotografia che vi ha resi liberi, permettendovi di dipingere cosa e soprattutto come volete. Ma c’è da sottolineare che a questo punto i pittori, che per Picasso voleva dire gli artisti, si sono sentiti talmente liberi da dipingere non solo cosa e come vogliono, ma anche con che cosa, scegliendo anche la fotografia al posto di matite e pennelli. A tal proposito Davide Bramante afferma: “Il mio modo di fotografare è identico al mio modo di ricordare, pensare, sognare, sperare, tutto avviene per sovrapposizioni temporali e spaziali”, tramite la fotografia analogica ad esposizione multipla in fase di ripresa da quattro a nove scatti sullo stesso fotogramma. Scegliere la fotografia vuol dire scegliere la luce, anzi la lotta, combattimento, bilanciamento, la relazione tra luce e ombra. Questa è una questione certamente di quasi tutta l’arte e stranamente anche della scultura se si sta al XXXV capitolo della Historia Naturalis, in cui Plinio nel 77 d.C. ci narra della ragazza di Corinto, figlia del vasaio Butade Sicionio, che traccia il profilo dell’ombra dell’amato proiettata sul muro dalla luce della lucerna che suo padre plasmò in scultura. Noi sappiamo che le prime opere di Bramante, sul finire degli anni Ottanta, furono installazioni e sculture il cui soggetto era l’ombra e, come per la fotografia, dove c’è l’ombra c’è anche la luce che la genera. Ombra e luce sono essenze, materie mobili imprendibili e mutevoli. Per questo sembra che il passaggio successivo dell’artista in questione sia stato inevitabilmente l’impiego della fotografia. Ma di che tipo di fotografia si tratta?
Una fotografia in cui adotta, quale riferimento, la tecnica dell’acquerello. Difatti le sue immagini fotografiche sono fatte, come la pittura, di velature, dove: «…le stratificazioni e le velature che presenta ogni immagine mi riconducono alla storia della mia terra e del mio popolo, siamo un po’ Arabi, Normanni, Bizantini, Spagnoli…». Vale a dire che la sua abilità nel conseguire “ritratti di città”, sovrapponendo vari scatti fotografici, non rende conto solo della liquidità della nostra condizione sociale di “modernità liquida”, ancora Bauman, ma anche della “presa in prestito”, o del riferimento a una delle tecniche artistiche non solo più antiche ma anche più difficili proprio a causa della sua liquidità. Nell’acquerello basta un nonnulla per rovinare l’immagine che si vuole ottenere. L’immagine acquerellata è certamente un’immagine di colore, ma anche e soprattutto un’immagine di luce. In questa sta un’altra importante prossimità con la foto-grafia che vuol dire scrivere con la luce, motivo per cui il poeta e scrittore francese Alphonse de Lamartine, già nel secolo XIX, ebbe a dire che: “La fotografia è un’arte; anzi più che un’arte, è il fenomeno solare in cui l’artista collabora con il sole.” Quel culto del sole che è culto della luce e del vedere legata anche a Lucia di Siracusa, più nota come Santa Lucia, patrona della città siciliana luogo di nascita e di vita di Davide Bramante. Forse non poteva essere altrimenti per un artista nato a Siracusa, città tra le più importanti della Magna Grecia, dove fin da piccolo ha modo di osservare il duomo cittadino: un tempio dorico dedicato ad Athena nei secoli trasformato in chiesa cristiana tramite successive stratificazioni architettoniche tutt’oggi visibili, così come la città tutta greca-barocca-contemporanea. Questo ha instillato nell’artista la possibilità e necessità della stratificazione architettonica come sedimento di storie e culture, conferendo una mobilità a ciò che è più statico, e cioè a quell’architettura nucleo fondante della città. L’architettura e la città sono state per secoli segni di fondazione di civiltà, ma anche luoghi statici, cintati, murati e protetti. Certamente, a detta dei greci antichi, riferendosi alla vita della città, “la città rende liberi”, ma a costo di una architettura posta a difesa della natura. Tuttavia, c’è ancora un’altra questione, quella, ripetiamo, della collaborazione tra immagini che si sovrappongono, il che non vuol dire soltanto sovrapposizione di forme, ma di tempo che è la problematica principale intorno a cui lavora Bramante per questa mostra, in cui, tra l’altro, sono presenti immagini di: Noto, Tokyo, Marrakech, Washington, Torino, Stoccolma, New-Delhi, Milano. La caratteristica di queste foto è che le sovrapposizioni di immagini fotografiche possono essere e sono “interne” o “interne-esterne”, il che non vuol dire soltanto di luoghi interni ed esterni di una città ma, come in certe opere, sovrapposizioni di immagini di città diverse come ad esempio quella di Tokyo e New York. Tutto ciò ci fa riflettere sul Tempo, e su uno dei suoi attivatori più potenti, vale a dire la memoria, o le memorie, in quanto sappiamo che i ricordi sono anch’essi multipli, perché ricordiamo uno stesso episodio in maniera differente a distanza di tempo. In questa mostra e in queste opere la sfida è ancora più ardua, perché la memoria non si basa solo su episodi di vita vissuta. Ad esempio, parlando dei visitatori, ci sono persone che non sono mai state a Tokyo, eppure hanno un’immagine di essa molto forte e nitida. In tal modo si viene a formare non una memoria del luogo, ma dell’immagine del luogo o non luogo come altro luogo. Molta della nostra memoria spesso è costruita attraverso le immagini, come le cartoline, immagini in via d’estinzione, o le immagini televisive, di giornali e oggi dei social media. Sono immagini fisse e immagini a scorrimento sempre più veloci e dunque anche tempo e memoria si relativizzano e velocizzano, dando ragione a quanto da tempo affermato da John Szarkowski, direttore del dipartimento della fotografia del MoMa dal 1962-1991, che afferma: “Viviamo sempre più in un mondo che ora contiene più fotografie che mattoni e che esse sono sorprendentemente tutte diverse”. Così Bramante confuta e mette a fuoco la questione della differenza nella ripetizione di una vita che vale la pena di essere vissuta in un mondo costruito dalle immagini che sono ormai una nuova realtà. Tutto questo ci riporta ancora alle opere di Bramante, il quale compone queste immagini “liquide” proprio per darci conto della relazione delle differenze tra il vecchio e il nuovo e, dunque, fra le categorie del passato, presente e futuro. Infatti dice l’artista: “Le mie foto sono tecnicamente tutte errate alla stessa maniera. Se proprio si vuole discernere su ciò che è passato da ciò che è presente o futuro, potrei sarcasticamente affermare che io sono il passato con un piede nel presente, sperando di spostare il lavoro ancora per qualche tempo verso il futuro”. Un lavoro fatto di una somma di immagini, una somma di memorie, una somma di luci e di ombre, una somma di vecchio e nuovo, una somma di tempi. In questo caso vediamo la persistenza di luoghi antichi e rinati come la sua Noto ricostruita dopo un forte terremoto avvenuto nel 1693, ma rinata più bella di prima sia per architetture che per popoli, come sottolinea l’artista. Si tratta di un luogo che ha incantato e incanta molti, persino l’ultima zarina di tutte le Russie che vi aveva alcuni possedimenti. Simultaneità di immagini che sono simultaneità di pensieri e ricordi, perché, ancora Bramante: «Il mio modo di fotografare è identico al mio modo di ricordare, pensare, sognare, sperare, tutto avviene per sovrapposizioni temporali e spaziali.» Allora ecco Washington sembrare un po’ America e po’ Roma, ecco New York sembrare un po’ Tokyo e viceversa, ecco Milano sembrare tutto futuro, ecco l’India molto India e un po’ America sembrare originaria e moderna al tempo stesso. Ecco luoghi che sono loro stessi pur sembrando altri, luoghi multipli sempre abitati da una folla di persone. La moltitudine anonima, altra condizione della modernità, perché corpo che si addensa e disperde creando, come l’architettura spazio, spazio di corpi mobili anima collettiva delle città che “diventano Metropoli quando si arricchiscono di nuovi cittadini. Le nuove città ideali diventano tali non soltanto per le architetture, ma quando si mischiano gli stili di vita. Non è la grandezza che rende importante una città, ma quante più storie sono legate ad essa”. Questo ci porta a dire che, pur essendo le sue opere fatte di immagini e tempi diversi, “l’old e il new”, come dice l’artista, sono al tempo stesso l’uno e l’altro. “Opere che non si completano mai, perché offrono sempre nuovi spunti e riflessioni... Una sorta di Torre di Babele che si sviluppa in altezza, verso un cielo”.
Dunque è questo concetto del tempo stesso, o del contempo l’essenza contemporanea delle sue opere che sono compresenti, sembrando sempre allo stesso tempo antiche e nuove di una vita viaggiata e vissuta con e per l’arte.